Il teatro al tempo del Covid_19. Roberto Latini: “dobbiamo ri-esistere”

Il teatro al tempo del Covid_19. Roberto Latini: “dobbiamo ri-esistere”

RUMORS(C)ENA – TEATRO – CORONAVIRUS – COVID_19 – Il teatro al tempo del coronavirus. Quanto è utile la sua divulgazione attraverso la multimedialità come l’utilizzo dello streaming? La domanda cerca di capire le ragioni per certi versi eccessiva della proposta/offerta. Il celebre musicista Nick Cave non ha dubbi e scrive sul suo blog “Red hand Files”: «Niente dirette streaming, è tempo di fare un passo indietro. Creare è il mio modo di reagire alle crisi. Ma questo è il momento di fare un passo indietro. Essere creativi significa essere vicini al prossimo (…) Quando sarà tutto finito avremo scoperto cose sui nostri leader, sulla società, sugli amici, sui nemici e soprattutto su noi stessi. Sapremo qualcosa della nostra resilienza, della nostra capacità di perdonare, della nostra vulnerabilità. Forse è il momento di essere consapevoli e attenti».

Anche gli artisti teatrali si sono visti costretti a dover interrompere la loro attività con la chiusura forzata e l’impossibilità di proseguire come sta accadendo per la maggior parte delle altre professioni in Italia (con l’eccezione di quelle indispensabili come le sanitarie), solo per citare una delle più esposte e a rischio a causa del Covid_19. L’emergenza sanitaria ha creato di fatto una realtà virtuale dove lo spettacolo dal vivo è stato mutuato da forme inedite di comunicazione con il “pubblico”. Una rincorsa frenetica nel divulgare le rappresentazioni per intercettare l’attenzione e mantenerla affinché non si affievolisca il rapporto tra artista e spettatore. Il teatro senza pubblico senza il respiro di chi assiste ad uno spettacolo non trova però tutti d’accordo: attori e registi, critici teatrali hanno sentito la necessità di far sentire la loro presenza attraverso i mezzi audiovisivi . Il risultato è stato quello di suscitare disorientamento contrapposto a molti commenti di approvazione. Un singolare modo di fruizione mai sperimentato prima, se non con la televisione quando venivano trasmesse le commedie. Impossibile fare un paragone con quello che accade ora dove il multimediale ha preso il sopravvento. Ha sostituito improvvisamente la messa in scena regolare e consueta a cui eravamo abituati. In molti iniziano a chiedere di fermarsi e di dedicarsi al tempo del silenzio e della riflessione. In effetti la rete è come lo specchio in cui ci guardiamo e di conseguenza si riflette quello che noi siamo…

foto di Alessandro Trigona (Per una drammaturgia italiana contemporanea)

Il teatro è parte integrante della società e della cultura a cui dobbiamo tanto. La crisi tocca tutti e ognuno dovrà cercare di contribuire a ricostruire una nazione, un’identità e una comunità d’intenti. Non è solo il teatro a soffrirne. Con il Covid_19 in molti hanno fatto la scelta del silenzio. Non il mutismo ma la capacità di ri-pensare e di ri-vedere il proprio percorso e iniziare a ri-costruirlo. Per farlo è necessario trovare insieme delle nuove energie da condividere insieme. Coesione ma anche compassione. «Non passione ci vuole, ma compassione, capacità cioè di estrarre dall’altro la radice prima del suo dolore e di farla propria senza esitazione» … da il romanzo “L’idiota” di Fëdor Dostoevskij.

Roberto Latini

Roberto Latini è un artista molto stimato del teatro italiano: la sua carriera artistica è tra le più prestigiose e affermate per aver contribuito a far conoscere uno stile contemporaneo nel portare sulla scena i classici del teatro. Come tutti, anche Latini è a casa e il suo lavoro si è interrotto. Da un mese si trova nella sua residenza di Milano da dove risponde alla richiesta di spiegare il suo punto di vista di cittadino e artista. Roberto Latini non approva la scelta di molti artisti di “esibirsi” in modalità differenti dalla pratica di recitare su un palcoscenico con il pubblico seduto in sala.

I teatri sono chiusi e chi ci lavora è stato costretto a sospendere ogni attività dal vivo e di riflesso si è venuta a creare una sorta di “messa in scena” a distanza senza pubblico, senza le poltrone della platea occupate dagli spettatori. Possiamo definirla una sorta di “telelavoro” ?

«Sono in casa dal 25 febbraio a Milano dopo essere tornato da Lecce e vivo una percezione non quotidiana rispetto al lutto e alla drammatica situazione che accade fuori. Nel mezzo di tutto questo provo la sensazione che noi dovremmo esercitare – non un’azione di resistenza, ma di iniziare a prepararci a ri-esistere.  Parlo per il nostro lavoro a teatro. Parlo della platea, del nostro essere spettatore. Ora accade che uscire di casa è diventato per tutti un esercizio mirabolante da compiere e non è una scelta privata. Anche noi teatranti dobbiamo adeguarci a delle norme e regole fondamentali da rispettare».

Il teatro diffuso attraverso gli strumenti tecnologici e mediatici. Molti hanno scelto questa alternativa da remoto per mantenere il contatto con il pubblico anche se in modo virtuale. 

«Il teatro in streaming lo considero alla pari di una telefonata, di un saluto. Non dobbiamo stare dentro l’idea di un fronte della resistenza, ma mettersi in quella del pensiero, dell’immaginare. Di ritornare a quanto visto in piazza di San Pietro a Roma con Papa Francesco. Un’immagine tra sacro e profano, Dedicarsi al tempo dell’accoglienza. Concentrarsi diversamente perché c’è un modo più poetico e fare del silenzio la nostra pratica. Fare scorta. Certi affanni che noto sembrano evidenti. Scegliamo un metodo didattico che ci unisca per ritrovarci e riformulare una nuova scala di valori. Si torni ai fondamentali di quello che dovrebbe essere il teatro. No al mercimonio e alla rincorsa degli algoritmi! Bisogna ripartire dal repertorio quando riapriranno i teatri. Stare nell’esercizio nel senso nobile del termine e mi ripeto, nell’accoglienza e nella compassione del com-patire insieme. Le occasioni dell’essere ironico commentando anche le immagini del Papa e l’effetto balconi, a mio avviso, denotano la solitudine da sovraesposizione e l’inadeguatezza che ne deriva, dell’artista. Dopo l’interruzione – prosegue Latini – quando ci faranno riaprire e uscire non dovrà coincidere con la messa in moto immediata del nostro lavoro. Quello che dovremo fare è scendere in “platea” e chiederci cosa siamo diventati noi, ma soprattutto chi si sedeva in platea: le persone. L’essere umano. Come saranno diventati. Cosa saremo diventati tutti. Io diffido della platea digitale. Il sistema resisterà per i teatri più grandi e avverrà una selezione feroce. Ripartiamo dal repertorio, da noi stessi prima di tutto. Scriviamo un diario ma non dobbiamo destinarlo alla scena. Non dobbiamo spettacolizzare noi stessi e scendere, lo ripeto, dal palco e restare in questa attesa».

Michele Comite   foto di Eliana Manca

Il contributo di Michele Comite artista e regista del collettivo Clochart di Rovereto (Trento)

Covid_19 e #iorestoacasa

Le regole sono fatte per essere infrante come fa Marie Van Schuyler ( personaggio del film L’assassinio del Nilo interpretato da bette Daves e tratto dal romanzo di Agatha Cristie) e quasi tutti noi specialisti in questo campo, quindi non mi scandalizzo se molti non le rispettano. Mi fa rabbia invece il perdere tempo, il sopravvalutare ed il sottovalutare. Perché dobbiamo sempre attendere ad intervenire drasticamente per fare rispettare le regole? Soprattutto quando, come in questo caso, servono per far sopravvivere l’altro? Ma davvero pensiamo che basta un hashtag io resto a casa per scuotere la coscienza di coloro che delle regole se ne fregano anzi se ne sono sempre fregati?
Nel 2018, una ricerca ha messo in luce come gli italiani siano il popolo più ignorante in Europa, soprattutto per quanto riguarda la percezione dell’attualità: forse lo sapevamo già ma per coloro che nutrivano qualche dubbio, grazie al covid_19 ora ne abbiamo avuto la prova.

Covid_19 e #isocial

Una volta dovevi stare attento a quello che dicevi o scrivevi ora devi stare attento a dove metti i like perché potresti accettare la “sfida” di mettere in mutande tua madre.
Siamo passati dalle dirette televisive alle dirette Facebook, Instagram senza nemmeno rendercene conto, senza la minima esperienza, molti ignoravano persino l’esistenza delle video chat! Artisti compresi! E ci si è tuffati dentro il mare virtuale senza ‘patente’ quella patente che voleva fosse data a coloro che facevano televisione da Karl Popper. A tale proposito consiglio di leggere “cattiva maestra televisione” del 1994, lì c’è tutta la previsione di ciò che è la società d’oggi.
Siamo passati dalle dirette televisive alle dirette social senza coscienza col rischio di inebetire, di inebetirsi. Anche noi artisti non siamo immuni da questo inebetimento sociale, vuoi per astinenza da palcoscenico, vuoi per solitudine, vuoi per l’ esorcizzazione del male, vuoi per quello che vuoi ma chi usa questi mezzi, bisogna che sia conscio della responsabilità che si assume.
Proprio noi teatranti che ripugnavamo la televisione perché volgare e che basa il suo successo sul sadismo del pubblico (che criticavamo), pronto ad assistere divertito alle performance grottesche dei partecipanti, siamo diventati personaggi da talk show coprendoci sotto la vesti di imitatori e doppiatori di ciò che non volevamo essere e che stiamo diventati. Ma tutto finisce prima o poi e se non sarà per il picco da corona virus sarà per la saturazione dello spettatore.

Covid_19 #igiovanieil teatro

Sento e vedo parlare poco dei ragazzi, del popolo degli hashtag forse perché glielo abbiamo sottratto quell’ hashtag?
Ho chiesto ai ragazzi di raccontarmi cosa pensano degli adulti, proprio ora che si trovano rinchiusi con loro h24 su 24. Quegli adulti che dovrebbero educarli, accompagnarli alla comprensione ora che non possono più accompagnarli a scuola (risata). I racconti che mi stanno arrivando sono l’esatto riflesso di ciò che ha detto il papa “pensavamo di essere sani in una società malata”.
Il teatro, l’arte in se in questi anni ha spesso gridato il suo urlo di dolore per una società alla deriva concentrata a privilegiare il profitto, individualismo, l’ audience, il like più che l’altruismo, il bene comune il rispetto dell’altro e delle regole. Lo si urlava ad un platea di pochi affezionati spesso annoiati spettatori dell’auto celebrazione fatta troppo spesso di estetica più che di contenuto.
Anche il teatro è alla deriva?
No, non il teatro ma l’istituzione teatrale, quella dell’attore in prestito gratuito, quella dei bandi, quella della politica del ministero, quella del do un po a tutti per non scontentare nessuno ma che scontentata sempre quello che prende di meno.
Il teatro paradossalmente ne uscirà più forte, umanamente più ricco. Il teatro è in grado di farci amare anche le storie più terribili se si è capaci di accogliere il dolore, di farlo nostro di trasformarlo e di amarlo come l’attore ama il personaggio, anche quello più infimo e malato.

Covid_19 l’immagine del #Papateatro

Eleggere una immagine sopra altre immagini è un gioco ‘estetico’ che serve ai più per ricordarsi che lui o lei esiste e che fa parte di quel mondo. Questo disperato sforzo è nullo se si pensa a José Ortega y Gasset, che intendeva il teatro come una “cosa” che è tante cose diverse, che nascono, muoiono, si fondono, si sostituiscono, si susseguono, si annullano, si trasformano, fino a diventare tra loro anche irriconoscibili. Rinunciare a esporsi, sottrarsi dal commentare stare in ascolto e vedere la forza emotiva dei passi nel silenzio, la cura e la fatica di scegliere parole da dire o non dire in giorni che segnano il dolore di vite perse nella solitudine dove il vuoto rappresenta il tutto, sarebbe la vera immagine del teatro.
Come quando dopo aver visto uno spettacolo te ne stai in silenzio, ascolti solo quello che ti risuona dentro e che magari in un secondo momento hai voglia di condividere ma purtroppo c’è sempre quello o quella del posto accanto che ti dice, “…allora? Ti è piaciuto?”

#Comestai?
Sto nel mio autismo, soprattutto oggi, senza indossare nulla di blu perché mi ricorda il programma di eutanasia Aktion t4 con cui Hitler sterminava malati psichici e disabili. Penso ai ragazzi con disabilità e penso al teatro perché con loro lo facciamo. Mi mancano le relazioni umane, quelle vere, belle e sincere ora più che mai. Ce lo ricorda William Shakespeare in Molto rumore per nulla “ Noi non apprezziamo il valore di ciò che abbiamo mentre lo godiamo; ma quando ci manca o lo abbiamo perduto, allora ne spremiamo il valore”. Ecco, non perdiamo l’occasione di godere di ciò e di chi ti fa stare bene perché da un momento all’altro potresti perderlo.
Ne usciremo tutti più fragili ma più consapevoli in primis il Teatro ma con la “T” maiuscola. Non il teatro dei piagnistei delle grosse realtà teatrali che mi fanno solo irritare! Che faccia tosta! Da decenni godono di contributi pubblici che spesso servono a produrre faraoniche messe in scena per oliare meccanismi oramai stanchi e che durano il tempo di una stagione. Ri-esisterà il Teatro del contenuto più che della forma, si reinventerà il rapporto con lo spettatore grazie proprio a quella consapevolezza di cui parlavo prima, fatta di piccoli gesti di cura e di attenzione come una infermiera con il suo paziente ma anche la consapevolezza dell’essenzialità dell’altro nel sopravvivere alla solitudine. Nulla ha senso senza l’altro, nella vita come in Teatro.
Il mio pensiero va ai singoli artisti, ai lavoratori autonomi a free lance alle piccole e medie realtà private che sputano l’anima per dipendere più dai soldi degli incassi che dai contributi pubblici.
Voglio auspicare che questa sia una occasione per una profonda riflessione, attenta e condivisa, su quanto precaria sia la condizione dei lavoratori dello spettacolo e quali siano le contromisure da adottare immediatamente, ché non possono davvero essere più procrastinate, per salvaguardare la cultura del teatro. Oggi 2 aprile 2020 è la Giornata mondiale dell’autismo. 

 

AgCult Mibact

Il contributo di Francesca Romano Lino

“Se non è dal vivo, non è teatro”. Questo è l’argomento – tanto inoppugnabile, quanto attualmente impraticabile -, brandito dai puristi del teatro ai tempi del coronavirus. La logica conseguenza? Ad oggi, resterebbe solo quella di un amletico catartico silenzio. Poi esiste il pensiero di chi, al netto delle gni), pensa che il teatro non sia solo spettacolo, pur nel senso più alto e nobile del termine. Il Teatro, ricordano alcuni, ha anzitutto a che fare con la dimensione della collettività, della libertà, dell’espressione, del confronto, della sguardo, del reciproco legittimante riconoscimento delle difficoltà tecnico organizzative (e delle non secondarie questioni di SIAE e mancati guadagni e dell’esercizio di quello scambio, che, ormai, sempre più spesso era già praticato prevalentemente attraverso i social. E, allora, perché non riversarlo direttamente in quest’amniotica rete, il teatro, almeno fino a quando non potrà essere che questo, il solo modo possibile per restare in contatto?
Non credo che il pericolo sia tanto il disamorarsi del rito reale del teatro dal vivo. Piuttosto, come paventato da molti, che un teatro inevitabilmente fatto male, a causa di mezzi impropri e di fortuna, possa dare un’immagine di sé distorta e respingente. Certo: il rischio c’è – com’è sempre stato rischioso, al calar delle luci in platea, accorgersi, fin dalle prime battute, che la trepidante attesa del fatto teatrale si stava volgendo nella delusoria constatazione che… forse, quella sera non era valsa la pena! E quindi? Questo non ha mai impedito di tornare a teatro, la volta dopo, ad attendere il primo vagito scenico con intatta emozione. Così io credo in un Teatro, che avrà saputo dimostrare tutta la sua voglia esserci – nonostante tutto -, a testimonio, sì, ma anche supporto e divertissement di un pubblico prostrato dai mille risvolti di questa tragedia. Certo che occorrerà del tempo, prima che la gente torni a non aver paura di sedersi nelle ravvicinatissime poltroncine di un luogo chiuso. Quel che si semina si raccoglie: e la generosa fatica della semina spesso è la sola via per la fioritura.

Il contributo di Maria Francesca Stancapiano

Una Giornata mondiale del teatro celebrata, o meglio non celebrata, (il 27 marzo scorso), in cui il silenzio è una cosa buona e giusta! Dal silenzio potremmo capirne la mancanza e l’essenza. È necessario pensare il teatro, non al teatro, purtroppo, chiuso. Pensare al silenzio, al vuoto, a come riempirlo dopo tutto questo incubo. Cosa avremo da raccontare e cosa da ascoltare? È un virus, questo del covid19, responsabile di aver influenzato l’umiltà. Allora la domanda è: perché un attore, o un regista prima del dramma, “raccontavano” una storia? Per esigenza di farlo tramite una delle arti più nobili come quella del teatro, o per continuare a dire al fruitore “io sono qui, applaudi a me mentre interpreto, a me che ho scritto, a me!” Quando viene a mancare qualcuno o qualcosa, la prima domanda che ci facciamo è “perché mi/ci manca? Cosa?”. Non c’è tempo, adesso, di chiederlo perché molti hanno qualcosa da dire, da mostrare, da far sentire. Eppure è arrivato il momento di apparecchiare la cronologia soltanto al silenzio. L’attore interpreta, è una cosa risaputa. Dovrebbe ora mentre si registrano i morti come ciliegie cadute da un albero, interpretare l’arte del silenzio, del respiro, della meditazione. Un training per l’anima in questo calvario capace di attecchire chiunque. L’attore è come il poeta, e il poeta sa restituire il “sentire”.


Per un teatro clandestino”. Dedicato a T. Kantor

di Antonio Neiwiller (1993)

È tempo di mettersi in ascolto.
È tempo di fare silenzio dentro di sé.
È tempo di essere mobili e leggeri,
di alleggerirsi per mettersi in cammino.
È tempo di convivere con le macerie e
l’orrore, per trovare un senso.
Tra non molto, anche i mediocri lo
diranno.
Ma io parlo di strade più impervie,
di impegni più rischiosi,
di atti meditati in solitudine.
L’unica morale possibile
è quella che puoi trovare,
giorno per giorno
nel tuo luogo aperto-appartato.
Che senso ha se solo tu ti salvi.
Bisogna poter contemplare,
ma essere anche in viaggio.
Bisogna essere attenti,
mobili,
spregiudicati e ispirati.
Un nomadismo,
una condizione,
un’avventura,
un processo di liberazione,
una fatica,
un dolore,
per comunicare tra le macerie.
Bisogna usare tutti i mezzi disponibili,
per trovare la morale profonda
della propria arte.
Luoghi visibili
e luoghi invisibili,
luoghi reali
e luoghi immaginari
popoleranno il nostro cammino.
Ma la merce è merce
e la sua legge sarà
sempre pronta a cancellare
il lavoro di
chi ha trovato radici
e guarda lontano.
Il passato e il futuro
non esistono nell’eterno presente
del consumo.
Questo è uno degli orrori,
con il quale da tempo conviviamo
e al quale non abbiamo ancora
dato una risposta adeguata.
Bisogna liberarsi dall’oppressione
e riconciliarsi con il mistero.
Due sono le strade da percorrere,
due sono le forze da far coesistere.
La politica da sola è cieca.
Il mistero, che è muto,
da solo diventa sordo.
Un’arte clandestina
per mantenersi aperti,
essere in viaggio ma
lasciare tracce,
edificare luoghi,
unirsi a viaggiatori inquieti.
E se a qualcuno verrà in mente,
un giorno, di fare la mappa
di questo itinerario,
di ripercorrere i luoghi,
di esaminare le tracce,
mi auguro che sarà solo
per trovare un nuovo inizio.
È tempo che l’arte
trovi altre forme
per comunicare in un universo
in cui tutto è comunicazione.
È tempo che esca dal tempo astratto
del mercato,
per ricostruire
il tempo umano dell’espressione necessaria.
Bisogna inventare.
Una stalla può diventare
un tempio e
restare magnificamente una stalla.
Né un Dio,
né un’idea,
potranno salvarci
ma solo una relazione vitale.
Ci vuole
un altro sguardo
per dare senso a ciò
che barbaramente muore ogni giorno
omologandosi.
E come dice il maestro:
«Tutto ricordare.
Tutto dimenticare».